di Angela Di Bono

Perché il dibattito strutturato (debate) dovrebbe essere inserito nel curricolo di scuola (nazionale)?

Negli ultimi 20 anni le scuole italiane hanno attuato l’autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo prevista dalla legge 275/99? Sicuramente sì, anche se con risultati non sempre omogenei, ma le migliori sperimentazioni sono state adeguatamente implementate nel sistema? 

Il debate ha una storia recente che vede protagonisti la rete Wedebate e le reti regionali di scuole, le Avanguardie educative (Indire) e la Società nazionale Debate Italia: il successo e il livello delle due edizioni delle Olimpiadi nazionali e il 1° Campionato giovanile in corso, la creazione di una squadra nazionale di debate stanno a dimostrare l’entusiasmo di dirigenti, docenti e ragazzi, ma anche il livello formativo e competitivo raggiunto. 

Peraltro, anche negli ultimi documenti nazionali e internazionali, il dibattito strutturato risulta centrale per la formazione del cittadino globale. Ecco alcuni esempi:

  1. Negli Orientamenti per l’apprendimento della filosofia nella società della conoscenza (2017) si raccomanda, tra l’altro,  lo sviluppo del critical thinking fin dalla scuola primaria attraverso le tecniche argomentative e il debate.
  2. Nel Framework sulla Competenza Globale OCSE PISA (2018), il dibattito strutturato e la flipped classroom (il dibattito è una modalità di classe capovolta) sono ritenute le metodologie migliori per sviluppare una cittadinanza attiva e responsabile
  3. Nelle Linee guida per l’insegnamento dell’educazione civica (2020) i tre fondamenti, Costituzione e legalità, Sviluppo sostenibile e Cittadinanza digitale trovano, attraverso il debate la naturale modalità di apprendimento e di valutazione (‘compito di realtà’)
  4. Le linee guida per la Didattica Digitale Integrata (2020), ribadiscono la centralità del debate: va ricordato che il lavoro di ricerca sul dibattito on line, avviata anche nel primo ciclo, ha reso possibili le Olimpiadi nazionali del 2020

Quindi il debate viene riconosciuto non solo come metodologia, ma come attività estremamente formativa e motivante. 

Sono due le principali motivazioni per cui il dibattito dovrebbe essere inserito nel curricolo scolastico in Italia 

  1. la dimensione ancora ‘ancillare’ dell’oracy nella scuola italiana, con tutte le conseguenze che questo comporta per l’esercizio delle abilità linguistiche.
  2. lo sviluppo delle soft skills  o non cognitive skills che, come afferma Luisa Ribolzi rappresentano ancora una ‘materia oscura’ nella pratica didattica e valutativa.

A proposito dell’apprendimento intenzionale dell’oralità il percorso in Italia è stato avviato in modo decisivo solo nel 1975 con le Dieci tesi per una linguistica democratica (GISCEL): laddove Tullio De Mauro sostiene la necessità di sviluppare, “nelle capacità ricettive e produttive, sia l’aspetto orale che quello scritto”. La pedagogia linguistica democratica è diventata fondamento dei Programmi del ‘79 (allora scuola media) che dell’85 (scuola elementare) e quindi delle Indicazioni nazionali (2008- 2010 -2012) del 1° e 2° ciclo, ma quanto ha veramente inciso, tale paradigma pedagogico, nell’agire didattico? Ancora oggi l’oralità nella scuola è spesso circoscritta all’interno delle competenze linguistiche e dei colloqui orali per la valutazione delle conoscenze, eppure la scuola rappresenta uno dei rari luoghi in cui i ragazzi possono esercitare la parola (e quindi la relazione) in modo non conflittuale e democratico, pratica ancora più importante nell’attuale situazione di distanziamento ‘fisico’. Lo sviluppo e l’esercizio delle capacità linguistiche non vanno mai proposti e perseguiti come fini a se stessi, ma come strumenti di più ricca partecipazione alla vita sociale e intellettuale: lo specifico addestramento delle capacità verbali va sempre motivato entro le attività di studio, ricerca, discussione, partecipazione, produzione individuale e di gruppo (VIII, 2): infatti nella competenza argomentativa sono coinvolte tutte le abilità linguistiche: lettura selettiva e di ricerca, produzione di sintesi, argomentazioni e controargomentazioni, ascolto attivo e public speaking nella modalità più efficace per l’apprendimento linguistico, quella collaborativa e attiva. 

Un’altra questione: a proposito di literacy, anche gli ultimi risultati dell’indagine OCSE PISA (2018) hanno visto i quindicenni italiani confermare e, in alcune realtà retrocedere, rispetto alle precedenti rilevazioni, inoltre (dato ancor più preoccupante) solo 1 alunno su 20 sa distinguere i fatti dalle opinioni in un testo relativo ad un argomento non familiare (media OCSE 1 su 20). Questo gap non è solo ascrivibile/attribuibile all’uso, spesso eccessivo,  dei social media e alla proliferazione delle fake news, ma anche alla mancanza di una didattica trasversale per lo sviluppo della competenza alfabetica funzionale; nelle scuole in cui il dibattito strutturato viene utilizzato da diverse o tutte le discipline, i ragazzi migliora visibilmente l’information literacy skills.  

Inoltre da più di 20 anni (almeno dal documento OMS sulle life skills, 1994) il nuovo modello di orientamento formativo (cfr. Linee guida per l’orientamento permanente, MIUR) e il mondo del lavoro richiedono ai ragazzi non solo competenze tecniche e professionali, ma anche consolidate competenze emotive, relazionali e cognitive. La consapevolezza di sé, la gestione dello stress, la capacità di prendere decisioni e di risolvere problemi, il pensiero critico, la comunicazione efficace, il team work possono e devono essere sviluppate fin dal primo ciclo d’istruzione in vista non solo di un mercato del lavoro sempre più flessibile e complesso, ma della crescita personale e sociale. Il dibattito è uno strumento formidabile per agire e valutare anche queste fondamentali competenze.

Da questa rapida rassegna di alcuni nodi problematici della nostra scuola, ritengo siano emerse diverse e, spero valide, ragioni per l’inserimento del debate nel curricolo scolastico (come nei paesi anglosassoni e non solo) perché il confronto leale, l’ascolto dell’altro e la capacità di argomentare (e anche di dubitare) rappresentano i presupposti della partecipazione democratica e della conoscenza.

Angela Di Bono